Questo è un racconto scritto il 9 giugno del 1976 e ritrovato in un quaderno di scritti vari che ho chiamato Zibaldone. Non per imitare Leopardi, per carità, ma solo perché in fondo si tratta della stessa cosa: una raccolta di scritti vari, commenti, lettere, racconti, giochi d’immaginazione, etc, raccolti tra il 1976 e il 1979.

Gilda è un racconto del genere noir, frutto delle inquietudini umorali di un giovane di ventitre anni, ancora alla ricerca di troppe cose da capire. Il linguaggio espressivo è scorrevole e la vicenda si dipana con un ritmo accorto, anche se l’epilogo comincia a balenare nel corso della lettura e, quando arriva, non è una sorpresa. Ma forse lo dico io perché, rileggendolo dopo averlo trovato, me lo sono ricordato. Giudicate voi.

N.b.: il testo che propongo è la trascrizione dell’originale, nel pieno rispetto dello stile e del linguaggio, con la sola correzione di qualche refuso e di uno stridore stilistico che ho trovato insopportabile.

Gilda era pazzamente innamorata. Aveva conosciuto Amedeo in una polverosa biblioteca della città vecchia, mentre stava cercando degli antichi manoscritti in latino, opera di oscuri erboristi. Sfogliava le pagine indurite di un piccolo libro rilegato in pelle scura che emanava un’odore di stantìo, quando nella penombra tra gli alti scaffali di noce avvertì la presenza di qualcuno.

Gllda si voltò e scorse una figura esile e alta, avvolta in un cappotto blu, col volto scavato e il naso aquilino, intenta a osservare l’ultima fila di libri. Gli occhi luminosi vollero incrociare per un attimo quelli di Gilda, che ritornò subito tra le pagine del suo libro, sentendo quello sguardo troppo opprimente. Continuando a scrutare il libro, Gilda non perdeva d’occhio i movimenti di quell’uomo che, lentamente, scendendo dagli scaffali, le si stava avvicinando.

Il sole del pomeriggio voltava le spalle a Gilda e disegnava sul dorso dei libri la forma del suo corpo con il motivo a scacchiera delle inferriate; lentamente l’ombra di quell’uomo incontrò quella di Gilda e sembrò voler iniziare un dialogo. Ella alzò gli occhi su quella figura che ormai le stava difronte e vide nei suoi occhi la dolcezza infinita di un verde primaverile e la fresca vitalità di chi sapeva voler vivere. Gilda sapeva che quegli sguardi avevano qualcosa da dire, ma egli non proferì parola e si limitò ad aggirarla, proseguendo il proprio cammino.

Sempre sfogliando il libro, Ella studiava l’uomo che si stava allontanando, ma quando volle riguardarlo, scoperse con gioia e nervosismo che anch’egli la stava guardando, e forse non aveva mai smesso di guardarla. Ora i suoi occhi erano, però, neri e profondi, densi di un senso misterioso di inquietudine.

“Gilda” la chiamò “le è scivolato un quadrifoglio dal libro.”

Mormorando un grazie, la ragazza si era chinata per raccogliere quella reliquia depositata tra le pagine di un libro in latino chissà da quanto tempo. Stringeva tra le dita sottili l’esile gambo e osservava le foglie ingiallite.

“Portano fortuna i quadrifogli, è un peccato perderli.” L’uomo aveva ancora parlato e la sua voce gelida si perdeva negli angoli impolverati della biblioteca.

“Come conosce il mio nome?” Gilda aveva trovato la forze per parlare. Il suo carattere timido e le paure quotidiane che l’accompagnavano la facevano tremare tutta, il suo corpo era percorso da brividi di freddo. Le labbra piene di giovinezza erano rimaste socchiuse nell’attendere una risposta.

“Mi chiamo Amedeo, e ho letto il suo nome nel registro, all’ingresso. Lei è la prima persona che visita questa biblioteca da almeno una settimana. Che cosa spera di trovare qua dentro?”

“Cercavo un libro di un erborista di due secoli fa. Vorrei trovare qualche ricetta per la mia farmacia, ogni tanto si scopre qualcosa di nuovo. Adesso sembra che io abbia trovato quello che cercavo, forse questo testo potrà essermi utile. Ma lei conosce bene questo posto, da come parla.”

“In effetti lo conosco; vede, non sono molte le persone che vengono qui, ma quelle poche sono sempre state delle conoscenze molto importanti. Io personalmente qui non cerco libri, i libri sono morti, io cerco invece chi è vivo, come lei; gli uomini.”

“Non le sembra un posto un poco strano per cercare gli uomini? Le basterebbe frequentare la città per fare conoscenze interessanti, non crede?”

“Gli altri non mi interessano, sono tutti morti. Io invece certo gli uomini vivi, quelli che hanno ancora qualcosa da dare.”

“E li può trovare solo qui?” Gilda ora cominciava a sentirsi a suo agio e trovava simpatico parlare con quell’individuo che forse doveva essere introverso quanto lei.

“Qui sono sicuro di trovare chi cerco io” proseguì Amedeo “e lei mi sembra una persona che valga la pena di conscere.”

“Come fa a dirlo se non mi conosce ancora?”

“È vero, io non la conosco, tuttavia sento che lei non è morta”.

“La spaventa la morte?”

“Io devo vivere, e per vivere ho bisogno di essere circondato da gente viva, sono stato troppo tempo senza la vita e ora non voglio più tornare come un tempo.” Amedeo si fermò qualche secondo, poi aggiunse: “Non so se mi capisce.”

“Ma come si sta senza la vita?”

“Lei è viva, e non può capirlo. È impossibile spiegarlo. Adesso, però, non mi tenga ancora in sospeso: posso sperare di rivederla? Ci terrei moltissimo.”

“Non lo so sul momento. Però penso che potremmo avere molto da dirci. Può passare da me in farmacia. Conosce quella in centro, sotto il campanile?”

Con un sorriso Amadeo era scomparso nel buio della stanza, dove gli ultimi raggi solari non potevano arrivare. Gilda si avviò all’uscita con il suo libro per il prestito, ma a ogni passo si sentiva sempre più debole. Era come se le forze le mancassero e la testa divenuta pesantissima. Pensò che l’aria viziata della biblioteca le avesse dato fastidio, e uscì precipitosamente.

Sulla strada l’aria di febbraio, la luce del tramonto, il movimento cittadino le ridiedero vigore. Dimenticò ben presto l’episodio, ma si portava dietro la speranza recondita di rivederlo.

*** *** ***

La mettina dopo Amedeo si presentò in farmacia. Alla luce del giorno era un bell’uomo: alto, ben piantato, il volto magro ma robusto, le labbra sottili e gli occhi verdi e indecifrabili, i capelli castani, né lunghi, né corti, spettinati. Le disse che aveva avuto bisogno di rivederla, che se non l’avesse rivista sarebbe morto, che si era accorto di non poter fare a meno di lei. Le disse tutto così, subito, con la voce concitata e senza nemmeno salutarla. Poi rimase a guardarla. Gilda si sentì svenire, l’aria divenne opprimente, le voci da fuori assordanti, la sua farmacia una prigione. Sentì un cerchio alla testa e perse i sensi.

Si risvegliò sul divano dietro al locale; era debole ma innamorata. Amedeo le stava vicino senza parlare e la accarezzava. Questo folle amore aveva colto Gilda impreparata. Le aveva teso il tranello tra gli odori antichi di una biblioteca dimenticata e ora l’aveva trafitta. Amedeo continuava ad accarezzarle il corpo, scivolando con la mano leggera sul seno, sul ventre, sulle gambe, lungo i fianchi, ma non le spostava i vestiti. La sua mano ripercorse attentamente tutto il suo corpo dall’inguine al volto, le strinse delicatamente le guance.

Si portò vicinissimo a lei e assaggiò il fresco sapore femminile delle labbra carnose, provò l’ebbrezza di una lingua inaspettatamente abile e vivace, sentì vicino a lui un corpo caldo e innamorato.

Gilda, nella sua debolezza, provò un grande piacere e non ebbe la forza di ritrarsi, né di ostacolare l’uomo che era sul punto di possederla. Una ragazza giovane e bella come Gilda non aveva ignorato l’amore, ma questa volta si sentì strappare con violenza tutte le forze che possedeva. Amare Amedeo era la più grande battaglia della sua vita, una lotta che ella doveva combattere con se stessa, per non darsi proprio tutta, per tenere per sé almeno qualcosa che la tenesse in vita, altrimenti sentiva che amando sarebbe morta.

Questi pensieri le correvano per la testa mentre sentiva le sue mani dominarla e il suo corpo penetrarle nelle viscere e impossessarsi dei recessi più nascosti. Quando si accorse che stava amando, forse per la prima volta amando veramente, rumori, odori, sapori intonarono per lei una sinfonia gioiosa, il mondo la prese per mano e la invitò a danzare il rito del suo sacrificio, mille uomini la sollevarono in trionfo portandola verso l’altare dove l’attendeva l’immolazione all’amore; il boato della folla delirante accompagnava il corteo.

Amedeo sembrava non fermarsi mai. Ubriacata dall’amore, Gilda si fece cogliere dall’angoscia. Nervosamente respinse l’uomo che da una ventina di minuti la possedeva, e ogni cosa tornò al proprio posto. Il silenzio riempiva la stanza e solo l’eco lontana di una sinfonia proseguiva sulle proprie note ovattate.

Amedeo si staccò ansimante dal corpo di lei; era tutto bagnato, i capelli raccolti in grossi ciuffi intrisi di sudore, i vestiti di entrambi erano lacerati.

“Scusa” disse Gilda “in questo periodo non sto molto bene, sono debole, non riesco a capire perché. Mi è piaciuto moltissimo, sono veramente felicissima di averti incontrato.”

“Ti amo” disse Amedeo bruscamente.

“Non credevo che un uomo potesse avere tanta forza …”

“Ti amo” ripeté.

“Sembrava che più io consumavo energia, più tu diventassi forte …”

“Ti amo.” Amedeo si alzò, rassettò gli abiti sconvolti.

“Non scapperai, vero?” disse preoccupata Gilda “Dove vai?”

Con un sorriso Amadeo la baciò dolcemente: “Non temere, non ti lascerò mai più, ormai sei mia e solo mia. Tu devi vivere solo per me …”

Ma Gilda aveva tentato di alzarsi ed era finita in ginocchio per terra. Era più debole di quanto credesse. Amedeo l’aiutò a sollevarsi, a cambiarsi d’abito, a pettinarsi e uscire con lui. Sarebbero andati in un ristorante. Camminavano abbracciati, lei tremante e insicura affianco a lui, cui ognitanto doveva appoggiarsi per un attacco improvviso di debolezza. Gilda era felice, ma non riusciva a spiegarsi quei momenti di affaticamento, la cosa la seccava parecchio, proprio ora che amava follemente un uomo e che per lui avrebbe voluto essere pienamente in forze.

*** *** ***

Gilda e Amedeo pranzarono in un modesto ristorante poco fuori città, in una veranda panoramica ricavata da un portico medievale, osservando la quiete di un paesaggio collinoso grigio e marrone come la terra di febbraio, sotto un cielo imbiancato da sottili veli di nuvole. Gilda guardava silenziosa il paesaggio invernale, ma dentro di sé sentiva la primavera.

“Che cosa fai?”

“Nulla di preciso. Si può dire che vivo alla giornata, cercando ogni giorno un motivo valido per vivere, e la forza per continuare.”

“Sei un pessimista?”

“No. Però non sono capace di vivere da solo. Ho bisogno degli altri.”

“Tutti abbiamo bisogno degli altri.”

“Ma non mi interessano gli altri morti. Io cerco gli altri vivi …”

“L’hai già detto. Dovresti spiegarti un po’ meglio.”

“Tu sei viva.”

“Io sono come tutti.”

“No. Tu sei particolarmente viva. È vivo solo chi riesce a dare agli altri un poco della propria vita, chi non vi riesce è già morto.”

“Ma tu, sei vivo?”

“Ora che ti ho conosciuta lo sono. Se tu mi avessi conosciuto prima, ti renderesti conto di come sono vivo adesso.”

Gilda gli sorrise. Questa frase aveva accarezzato il suo cuore innamorato. Prese la mano di lui, la strinse e sussurrò: “Ti amo.”

Amedeo era tornato a guardare l’orizzonte. Qualche passero volteggiava nell’aria gelida e Gilda pensò come tutto intorno a loro fosse morte e come solo loro fossero vivi, in quel momento.

*** *** ***

Quando Gilda si coricò Amedeo era ancora in bagno. Si sentiva molto stanca, per tutta la sera non aveva più avuto disturbi, ma ora un certo senso di malessere le stava tornando. Giaceva inquieta sul letto scrutando il soffitto e meditando se fosse il caso o meno di andare da un dottore l’indomani.

Amedeo entrò in camera: “Ti sei sistemata bene, qui” disse.

“Tu dove abiti?”

“In un posto bruttissimo. È meglio che non te lo faccia vedere. E poi non sono solo e non ti ci potrei portare di notte.”

“Voglio vederlo. Perché domani non ci andiamo?”

“Non pensare mai al domani, domani vedremo se …”

“Se?”

“Nulla. Ora pensa a dormire, perché non stai molto bene e oggi ti sei affaticata abbastanza.”

“Tu non vieni a dormire?”

“Dopo. Prima devo fare le mie due ore di meditazione yoga. Le faccio tutte le sere. Non ti preoccupare, non ti distruberò quando entrerò nel letto.”

Detto questo, si sedette in un angolo con le gambe incrociate, le mani dietro la schiena e il volto diretto verso di lei. Ella sorrise raccogliendo il suo sguardo concentrato, ma s’indispettì quando vide che dopo pochi minuti quello sguardo era diventato spento. Abbassò la luce e cominciò a sognare a occhi aperti. Pensò alla giornata di ieri, al primo incontro, al suo ingresso precipitoso in farmacia quella mattina. Ora che ci pensava se lo ricordava come sconvolto, era entrato barcollando e sembrava che stesse per cadere quando si era appoggiato al banco. Poi era sempre stato più vitale di lei, l’aveva aiutata quand’era svenuta, l’aveva amata fino a farla impazzire, l’aveva condotta come un padre per tutta la sera. Perché quello svenimento, quelle sensazioni di malessere? Anche adesso le erano riprese.

Si sentiva di nuovo debole, sudava, riusciva a stento a girare il capo per guardare il suo uomo immobile. I lineamenti di lui, per la luce fioca e bassa, avevano assunto un qualcosa di diabolico, ma era solo un effetto ottico. Lo sguardo vuoto continuava a fissarla, e questo la innervosì. Gilda era molto suggestionabile e cominciò a temerlo. Scacciò subito tuttavia, questi pensieri, ma le rimasero le preoccupazioni per la sua salute. Il corpo era avvolto dal sudore, rivoli salati le scendevano lungo le guance e penetravano nelle labbra. A fatica alzò il braccio per sentirsi la fronte: scottava. Non voleva disturbare Amedeo, tanto, pensava, tra poco avrebbe terminato con la sue stupide meditazioni.

“Nel delirio si vedono sempre cose mostruose” continuava a pensare “e mi sembra quasi di delirare. Sto malissimo, mi sembra che la vita mi stia sfuggendo, quale febbre mi ha colpito? Povero Amedeo, mi hai conosciuta solo ieri e già rischi di perdermi.” Provò a guardarlo ancora e le sembrò che nella meditazione stesse incamerando tanta energia, troppa per un uomo solo. “Dove la trova tutta quella forza, con quello che ha fatto oggi?” Più passava il tempo e più era fresco e sveglio.

“Chissà cosa darei per capire veramente cosa pensa! Tutti quei discorsi sugli uomini vivi e quelli morti, che significano? Mio Dio, come mi sento male, mi sento morire, e lui sembra non fare nulla per aiutarmi, da quando l’ho conosciuto le mie forze sembrano diminuite; ieri in biblioteca, appena ho visto quegli occhi illuminati da un raggio di sole mi sono sentita mancare …”

D’un tratto un dubbio atroce le sconvolse la mente: “No! È lui, è lui che …” Quel dubbio era diventato certezza nel giro di un secondo. Tutto ora si poteva spiegare, la debolezza, i suoi discorsi, quell’amore che l’uccideva …

Gilda guardò ancora Amedeo intento nella meditazione. Nulla in lui era mutato, stessa posizione, stesso sguardo vuoto. “Lui … lui … lui …”

Ripetendo dentro di sé questa parola forse cento volte, provò ad alzarsi, ma le forze le vennero meno. Con una smorfia di dolore raccolse tutte le energie che le restavano e si mise a sedere sul letto. Lui era rimasto immobile, ma sembrava lottare almeno quanto lei. Gilda, sudando, si trascinò verso un cassetto dell’armadio. La lotta che stava conducendo era sovrumana, a ogni movimento la vita le scompariva, si discioglieva nell’aria intorno. “Lui … lui …” Gilda riuscì ad aprire il cassetto. Era quasi sdraiata sul pavimento e alla cieca guidò le mani tra la biancheria pulita e fresca. Trovò, dopo una decina di secondi che durarono un’eternità, la pistola che teneva per difendersi. Quando era andata a vivere da sola sopra la sua farmacia aveva pensato bene che un’arma sarebbe stata utile a una ragazza indifesa, ma la considerava un’ipotesi assurda e tutto sommato aveva accettato di tenere la pistola in casa anche per tranquillizzare i propri genitori sempre timorosi nei confronti della figlia.

Ora Gilda aveva in mano l’arma, fredda e pesante. I colpi erano già innescati. La mente sconvolta riusciva a trovare le forze solo per sollevare il mostro con entrambe le mani. Gilda sapeva che non avrebbe avuto ancora molto tempo. In fondo alla camera Amedeo sembrava non essersi accorto di nulla, ma ora aveva solo girato lo sguardo: con gli occhi freddi e luminosi come la prima volta seguiva i movimenti di Gilda, forse inconsciamente. La figura accucciata dell’uomo cominciò a offuscarsi agli occhi di Gilda, ma un altro impulso della volontà la fece proseguire. Orientò il mirino verso il capo di Amedeo, ma la vista indebolita sembrava giocare tra il volto oscurato di lui, in cui brillavano gelidamente due palline bianche, e la forma arcuata del mirino, senza mai decidersi a centrare l’obiettivo.

Il cuore di lei era impazzito, sarebbe scoppiato di lì a poco, quando Gilda schiacciò con due dita il grilletto. L’arma le schizzò di mano con una nuvola di polvere, cadde sul pavimento ruotando su se stessa per circa un metro. Gilda era allo stremo. Alzò gli occhi dalla pistola ormai immobile e vide il corpo di Amedeo riverso in avanti, col volto immerso in una pozza di sangue.

Si alzò barcollando e andò a sdraiarsi sul letto, mentre le forze cominciarono a tornarle. Ora Gilda poteva finalmente addormentarsi tranquilla, avendo eliminato il vampiro che le succhiava la vita.

Per chi vuole scaricare il pdf del testo originale: https://www.mauroferri.it/wp/wp-content/uploads/2023/01/06-Gilda-9-giu-76-1.pdf

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