LA PARABOLA DEL SEMINATORE E IL SENSO DELLA VITA

(RIFLESSIONI SULL’ESSERE, 17 luglio 2017) Un brano del Vangelo in una domenica di luglio. Un immediato nesso con il capitolo sulla vita del mio saggio sull’ESSERE. Poi nell’omelia ho ascoltato le parole giuste. Sembravano parlare a me.

Domenica 16 luglio ero nel santuario di Monteortona, vicino Padova, a seguire la messa di mezzamattina. Prima della funzione ho letto il vangelo del giorno, con la parabola del seminatore (Matteo 13, 1-23). Gesù raccontò ai molti che lo ascoltavano la parabola del seminatore. Il gesto arioso del lancio dei semi non sembra molto produttivo: “una parte cadde sulla strada, e vennero gli uccelli e la divorarono”; altri semi finirono tra i sassi, germogliarono, ma al primo sole vennero bruciati; “un’altra parte cadde sulle spine e le spine crebbero e la soffocarono”; finalmente ci fu la parte che “cadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta.”
E Gesù aggiunse: “Chi ha orecchi, intenda!”
Più avanti Gesù, sollecitato dai discepoli, dà una spiegazione della parabola in termini di potenziale fideistico (o spirituale) di ciascuno di noi.
Ma questa è una chiave di lettura. Ce n’è un’altra, a mio avviso, che si avvicina di più all’essenza della parabola. E riguarda il senso stretto della vita. Quel “There’s anybody knows what we are living for” immortalato da Freddy Mercury nel suo testamento artistico.
Mi sento di affermare tutto ciò non solo perché leggendo il brano ho immediatamente colto la connessione con il settimo capitolo del saggio L’ESSERE, quello sulla vita, ma anche perché nell’omelia che ha seguìto la lettura del brano nel Santuario di Monteortona il sacerdote ha detto che i testi sacri non “sono” la parola di Dio, ma “contengono” la parola di Dio, cosa sancita dal Concilio Vaticano Secondo. Questo perché sono stati scritti da uomini, di certo ispirati, ma sempre uomini. E per comprendere la parola di Dio occorrono gli strumenti giusti (il sacerdote ha usato il concetto allegorico degli occhiali).
Dico subito che non ho la presunzione di possedere chissà quali strumenti interpretativi, né di pormi ai livelli di chi studia le sacre scritture o di chi è investito di severi impegni pastorali. Io penso che ciascuno di noi, se ha orecchi, può intendere.
Ecco quello che ho inteso: il gesto del seminatore rappresenta quello che accade costantemente nell’Universo, per esempio con la formazione di sistemi stellari da nebulose (com’è accaduto per il nostro sole). La vita, cioè la capacità di un organismo di mantenersi in esistenza metabolizzando le risorse che trova e di riprodursi, si attiva tutte le volte che le condizioni lo consentono, grazie agli stimoli di potenti radiazioni su alcuni elementi a base di carbonio immersi nell’acqua. Fenomeno che si verifica per lo più nei pianeti in via di formazione.
Se le condizioni non lo consentono (manca l’acqua, le radiazioni sono sono abbastanza potenti …), la vita non si attiva. Questo è il caso dei semi sulla strada.
Se le condizioni lo consentono, la vita si attiva. Sempre. E se la vita si attiva, fa quello che è intrinseco nella sua natura: evolve. Sempre e inevitabilmente. Però spesso, molto spesso direi, le condizioni non consentono all’evoluzione di seguire il suo cammino. A volte la vita appena attivata viene distrutta, bruciata da eventi come uno scontro con un asteroide o l’esplosione di una supernova. Questo è il caso del seme finito tra i sassi. Altre volte viene cristallizzata in una condizione di evoluzione bloccata. Come i frammenti organici che si trovano nel ghiaccio delle comete o, probabilmente, nei poli di Marte. Questo è il caso del seme tra le spine, che lo soffocano. Cioè gli tolgono il respiro, l’atman, per il mondo induista e buddista. Ma non lo distruggono.
Ma ecco che se le condizioni lo consentono, come sul pianeta Terra, la vita può evolvere liberamente, e generare frutti, chi cento, chi sessanta, chi trenta.
I frutti siamo noi. Il potenziale produttivo, previsto e ammesso dalla parola di Dio, non è un canone morale, né un parametro di merito. È solo un dato esistenziale. Ciascuno dà quello che può.

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