INTERVISTA A IVAN FANTINI, RACCOGLITORE A CINQUE CAPPELLI

INTERVISTA A IVAN FANTINI, RACCOGLITORE A CINQUE CAPPELLI

Per Barricate numero 6 l’intervista a un personaggio unico nel suo genere. Quotato chef in Romagna, chiude baracca e burattini dopo che il complicarsi delle norme lo mette fuori mercato e lo sottopone al ricatto della GDO. Si ritira con la sua compagna in una collina ai confini con le Marche e inizia a raccogliere la frutto che trova per strada. Per farci ottime marmellate.

Quella di dover scegliere quando si fa la spesa in un supermercato è la condizione nella quale più o meno regolarmente ci troviamo tutti quanti. La possibilità di scegliere è una espressione di libertà. E in effetti, facendolo ci sentiamo liberi. Poi arriva un tizio che, tutto serio, ti dice che non sei affatto libero, credi di esserlo, ma non lo sei. Siccome conosci chi ti sta parlando, vuoi capire meglio, e quando ti senti dire che “andare nel supermercato non è una scelta, è come cambiare canale alla tv”, cominci a cogliere il senso di un pensiero forte, radicale, intimamente libero. E anche spirituale, a suo modo.
Chi si esprime così è Ivan Fantini, una delle stelle della gastronomia italiana, fino a pochi anni fa ai vertici delle classifiche europee, un artista della cultura del cibo, creatore anche di composizioni da esposizione. Lo incontriamo nella sua residenza sulle colline romagnole ai margini del Montefeltro, in una vecchia casa colonica non lontano da Morciano, dove conduce con la sua compagna Paola Bianchi una nuova stagione della sua vita sempre reinventata. Vivono di raccolta, di piccola agricoltura, di allevamento minimo e di baratto. Proprio come i nostri progenitori più antichi. Ma è la raccolta il vero tocco di classe, che fa la differenza con l’autarchia di necessità. Ivan parte la mattina (se non piove; se piove rimane a casa a leggere) con le sue bisacce vuote e gira campagne e colline a raccattare i frutti caduti dalle piante, quelli a terra che tutti noi guardiamo con sufficienza. Poi torna a casa, pulisce tutto e prepara le sue marmellate. La procedura è rigorosa e professionale (vedi box qui accanto) e il risultato è eccellente, un prodotto assolutamente biologico.
“Non ‘biologico’, ma genuino” ci tiene a precisare Ivan, che rifiuta di adeguarsi a normative che fingono di tutelare di chi consuma, e invece impongono le leggi di un mercato che risponde solo al profitto. Quindi, niente certificazione biologica per le sue genuine marmellate.
“Ho visitato i laboratori industriali, fanno esattamente quello che faccio io, ma non mi piego alle regole di un mercato che è dominato dal dio denaro, anche il cosiddetto biologico è un prodotto del sistema, quello in cui la maggioranza del potere economico comanda anche la minoranza. La maggioranza crea il virus e anche l’antidoto, poi lo dà alla minoranza per far credere che ci sia un’opposizione. Bisogna rivendicare la legittimità al posto della legalità.”
E’ il principio dei Genuini-Clandestini.
“Per la vita che faccio potrei stare bene dentro i Genuini-Clandestini; ho contattato quelli di Bologna, ma trovo antietico fare 120 km per portare i miei prodotti.”
Che però non puoi vendere nei circuiti ordinari, negozi, ristoranti.
“No, non c’è spazio. Qui tutti vivono nel terrore dei controlli e delle tasse. Io, per essere a norma, dovrei fare quello che impongono le leggi che abbiamo importato con l’HCCP , quelle fatte dalla NASA. Dovrei fare due metri di lastricato bianco, mettere la cappa aspira fumi e via dicendo. Ecco che scatta l’illegalità.”
Si parla di illegalità, ma in realtà non ci sono comportamenti davvero fuori legge, non ci sono forme di abusi che potrebbero essere sanzionati. L’illegalità è in questo caso un concetto diverso: un concetto culturale alternativo alle regole del mercato.
“Esatto, si tratta di non dare i soldi a un mercato che detta le regole.”
E come?
“Con il baratto, per esempio. L’economia di scambio non deve necessariamente passare per il denaro. Il sistema ideale è nelle comunità autosufficienti, dove ciascuno apporta al gruppo le proprie competenze e le proprie capacità. Siamo arrivati a prevedere che una comunità di ventuno nuclei familiari è autosufficiente. Ma non è solo una questione di numeri” precisa Ivan “innanzitutto ci sono la pregiudiziale anticapitalista e la pregiudiziale antifascista.”
Non è un po’ troppo ideologico?
“Non è una questione di ideologia, ma di comportamento. Puoi avere le convinzioni politiche che credi, ma non sei giudicato per quello. Se ti comporti in maniera solidale, se non speculi per trarne vantaggio economico, se condividi e accetti gli altri, soprattutto quando sono diversi da te, allora soddisfi le due pregiudiziali, anche se hai simpatie fasciste.”
Quindi è una questione più culturale, che politica.
“Direi di ‘pensiero’. Se non sei radicale nel pensiero, non crei nulla di nuovo. Finisci coll’appartenere al meccanismo di una minoranza così come la vuole la maggioranza.”
Ivan viene da una famiglia proletaria. Ha cominciato a cucinare a sette anni per necessità, ha imparato a fare piade, tagliatelle e gnocchi. A tredici anni era aiuto cuoco in un ristorante-pizzeria in riviera, poi la scuola alberghiera, studio e lavoro per cinque anni.
“Ho capito che diversi interessi si intrecciano con la gastronomia, la musica, le letture. Ho fatto esperienze che mi hanno cambiato la vita. La prima, importantissima, nel 1993, ad Aquilina, il Redz di Santà, un luogo dove si tentava la commistione tra cultura musicale e cultura gastronomica. Poi la sua evoluzione nell’esperienza Quadrare il circolo di Rivazzurra di Rimini, con la lettura e il teatro. E’ lì che ho incontrato Paola, danzatrice e coreografa. E con lei la mia vita cambiò per la terza volta. Si aprì una fantastica esperienza con l’arte, il teatro e la danza contemporanea. Ho cominciato a lavorare nelle gallerie d’arte e nei musei, fino ad arrivare all’inaugurazione dei Fori Imperiali a Roma nel 2001 e alla Biennale di Venezia nel 2005.”
Il suo lavoro erano le installazioni di ingredienti.
“Ho voluto spostare il concetto dalla gastronomia, cioè il piatto finito, all’ingrediente. Forse per la prima volta ponevo il pubblico davanti al fatto che l’ingrediente può avere la sua letterarietà, oltre a essere ingoiato. Partivo dal titolo e attraverso gli ingredienti volevo stimolare pensiero, fuori dal contesto gastronomico.”
Poi una nuova grande svolta. Il coronamento di un sogno.
“Un amico d’infanzia un giorno mi ha chiamato per dirmi: ‘devi tornare a fare Ivan a casa tua’. Ha comperato un mulino da queste parti e mi ha consegnato le chiavi della parte inferiore per farne quello che volevo. Un gesto che non dimenticherò mai. E lì è nato, nell’inverno del 2003, Veglie in volo, che ho gestito fino a maggio 2011.”
Più che un ristorante, era un laboratorio di cultura gastronomica.
“Vivevo sulla collaborazione con i caseari, i norcini e i contadini. Tutto quello che si portava a casa faceva parte di un progetto. Fino al 2008 siamo stati tra i migliori marchi in Europa.”
E poi?
“Poi il sistema mi ha fatto disamorare della gastronomia. Tutti questi bellissimi progetti costruiti in dieci anni sono stati ammazzati in brevissimo tempo.”
Cosa è successo?
“Prima hanno appesantito gli studi di settore, poi è venuta fuori la legge antifumo. A Veglie in volo non si veniva solo per i pasti, si stava tre, quattro ore, c’era tutto un rituale con accoglienza. Infine la legge antialcool mi ha svuotato il locale. E a quel punto si è fatto avanti il sistema. Sono arrivati quelli della GDO e mi hanno detto: visto che sei nelle classifiche e che le guidi, ma stai soffrendo, perché non prendi i nostri prodotti? Noi ti portiamo la gente.”
E perché non hai accettato?
“Perché io ci metto la faccia. Funziona così. Tirano fuori un prodotto valido, che potrebbe stare nel mio ristorante. E io vado a raccontare in tv che è così. Poi con quasi lo stesso marchio fanno una linea non della stessa qualità che io ho promosso, ma al pubblico, quello che ‘sceglie’ nei supermercati, viene fatto credere che acquista ben altra cosa. Alcuni nomi noti lo hanno fatto. Ma quelli come me, che coltivano l’utopia, hanno risposto picche.”
Il sogno che franava, il ricatto del sistema, tutto ciò ha scosso Ivan fino alle radici, trasformandosi in una malattia. Psicosomatica.
“Una violenta colite accompagnata da depressione. Però, siccome non sono uno che si consegna al plotone di esecuzione, ho chiuso l’attività e ora sto benissimo, sono agguerrito e sono più incazzato di prima.”
E così oggi sei diventato un agricoltore – raccoglitore. Ma ci riesci?
“Sull’alimentare sono autosufficiente, grazie a orto, galline, quaglie e al baratto tramite il passaparola amicale. Per esempio, mangio pesce quando porto le marmellate a un amico pescatore, e via dicendo. Così è per la pasta, il riso. Sulla farina, però, non sono ancora autonomo come con olive e vino.”
È un po’ tornare al concetto della comunità.
“E’ così. In  questo modo contribuisco a sostenere un’idea. E’ tutto in funzione del tentativo che sto facendo di essere autonomo, anche se mi devo fermare all’alimentare, sulle altre cose sto attento ai consumi.” Ivan sembra riflettere qualche istante, poi dice contento: “C’è sempre più gente chi mi chiama: c’è la frutta, Ivan, vieni a raccoglierla!”

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