SOGNO O SON DESTO?

Una doverosa premessa.
Quello che segue è un tentativo di avvicinare il mistero dei sogni e dei loro significati provando a comprendere alcuni meccanismi fisiologici e biologici che ne sono all’origine; si tratta di ragionamenti che muovono dalle informazioni più recenti sul funzionamento del nostro corpo e del suo sistema nervoso, ma non hanno la pretesa di proporsi come “lettura scientifica”, anzi, esprimono un grado di comprensione dei fenomeni quasi euristico, anche se affrontato dopo la lettura di alcuni testi divulgativi di studiosi come Steven Rose (La fabbrica della memoria, 1992), Antonio R. Damasio (L’errore di Cartesio, 1994), Francis Crick (La scienza e l’anima, 1994), Stephen Budiansky (Se un leone potesse parlare, 1998), Edoardo Boncinelli (Il cervello, la mente e l’anima, 1999), Alberto Oliverio (Esplorare la mente, 1999).

Questi appunti sono, in buona sostanza, il tentativo di riordinare alcuni concetti per verificarne il grado di comprensione da parte di un lettore che non è medico, né psicologo, né biologo, né ricercatore, ma solo curioso di capire qualcosa in più della sfuggente dimensione nella quale, assieme a tutti gli altri, si trova a vivere.

Le tre coordinate della coscienza.
Il punto di partenza è, naturalmente, la coscienza.
Per avvicinarci alla comprensione del significato di “essere coscienti”, cioè di “essere consapevoli di esistere in un certo luogo e in un certo tempo”, è opportuno identificare le coordinate di questa dimensione esistenziale, le quali sono:

1 – la consapevolezza dell’identità (sapere di essere se stessi, l’ “Io”);
2 – la consapevolezza di tempo (sapere “quando” si è);
3 – la consapevolezza di spazio (sapere “dove” si è).

Esiste una scala di priorità, o di gerarchie, che dispone le relazioni interne a queste tre coordinate? Ora, la consapevolezza di spazio (“dove”) è modulata dalle percezioni, cioè dalla somma di tutti i segnali che pervengono al sistema nervoso centrale dalla periferia: la sintesi di tutte le informazioni generate dai cinque sensi costruisce la consapevolezza di spazio, unitamente alla articolazione di una precisa scala di valori “qui” e “là”; il confronto di queste con quelle depositate nella memoria, e riferite a esperienze percette in precedenza, fornisce la consapevolezza di tempo (“quando”), unitamente alla articolazione di una precisa scala di valori “prima” e “dopo”.

L’ “Io” è la sintesi dei due processi di conoscenza ora visti, la terza coordinata che si genera dalle prime due, perché in quasiasi punto della dimensione spazio-temporale, “qui ed ora” sono coordinate che possono riguardare una e una sola identità (tralascio, ovviamente, di addentrarmi nelle speculazioni di sapore sofistico che potrebbero tirare in campo i microorganismi che dividono, con il mio corpo, anche il mio spazio e il mio tempo, in quanto in questa sede l’unità minima presa in considerazione è l’essere umano con il suo corpo fisico).

Dunque, non esiste “quando” senza “dove”, essendo “quando” una somma di “dove” distribuiti in una scala temporale (ma può esistere un “dove” senza “quando”?); e non esiste “Io” senza “quando” e senza “dove”: affinché esista una dimensione autocosciente, è necessario che vi sia un luogo nel tempo e un luogo nello spazio ove collocarla.

L’attenzione.
Ma, concretamente, come lavora una “coscienza” individuale?
Essa è “attenta” ai fenomeni della dimensione spazio-temporale nella quale è inserita, nel senso che costantemente esplora il mondo, utilizzando gli strumenti informativi di cui dispone (i cinque sensi), e lo fa con un lavoro incessante, senza soste: da quando ci si sveglia a quando si torna a dormire l’attenzione non si riposa mai; noi possiamo dire di distrarci, di riposarci, di non pensare “a nulla”, ma la nostra attenzione no, continua instancabile a posare la sua “messa a fuoco” su qualcosa.

Inoltre, i nostri sensi ci trasmettono incessantemente una massa gigantesca di informazioni, così tante e tutte assieme, da non poter essere gestite contemporaneamente senza collassare; ecco che, allora, un accorto sistema di meccanismi (biologici) opera una selezione delle informazioni, in modo che alla sfera cosciente pervengano solo quelle in quel momento manipolabili e interpretabili; quelle, cioè, cui è possibile attribuire un significato utile; è come se si esplorasse un ambiente buio con una torcia, o come se si scrutasse un vasto orizzonte con un teleobiettivo.

Questa selezione è la conseguenza di un doppio processo:

  • dalla periferia al centro, tramite la modulazione dei filtri percettivi (azione centripeta: stimoli troppo deboli, o ripetitivi, o già valutati come non pericolosi, non arrivano a eccitare i neuroni della corteccia attivi nella coscienza, in quanto le vie afferenti degli stimoli – che effettivamente continuano a originarsi dalla periferia – s’interrompono a livello del paleoencefalo;
  • dal centro alla periferia, tramite l’orientamento pilotato dagli interessi della sfera cosciente (azione centrifuga: l’interesse per una conversazione, per una musica, per una lettura, per un evento osservato in strada, possono guidare per vie efferenti la messa a fuoco dell’attenzione, distogliendola da altri stimoli che, diversamente, saprebbero attrarla).

La coscienza è, in ultima analisi, l’attenzione stessa; più precisamente, l’attenzione è l’attributo sostanziale della coscienza.

Coscienza e non coscienza.
La coscienza è, dunque, l’attenzione che orienta l’individuo nel suo mondo. Ma il corpo dell’individuo manifesta nella sfera cosciente solo un aspetto di tutta la sua attività biologica: mentre la messa a fuoco dell’attenzione insegue, uno dopo l’altro, stimoli e interessi diversi, una mole immensa di attività sono regolate dal sistema nervoso, fino ai livelli corticali, senza che la coscienza se ne accorga; sono tutte le attività non-coscienti (o del subcosciente, attribuendo a questo termine, caro alle discipline che indagano la psiche, la responsabilità di agire in qualsiasi campo del corpo nel quali non arrivi – sia che non possa, sia che non voglia – la messa a fuoco dell’attenzione cosciente).

Appartiene, dunque, all’area del subcosciente tutto ciò che è attivo senza che ve ne sia consapevolezza, e questo “tutto” si divide in due gruppi:
a) attività delle quali, se vuole, l’attenzione può prendere consapevolezza e controllo: il respiro è l’esempio più significativo, ma anche la capacità di rilassare i muscoli, che si padroneggia con le tecniche yoga, o lo sforzo di frenare alcuni tic nervosi …
b) attività che comunque si sottraggono alla possibilità che l’attenzione cosciente ne possa prendere consapevole controllo: qui l’esempio più significativo è il battito cardiaco, anche se sembra che alcuni yogi riescano a manipolarlo. A questo gruppo appartengono le funzioni attive sempre, anche quando si dorme.

Già, il sonno. Perché il caso più emblematico di vita non cosciente (o di vita subcosciente) è quando si dorme, anche se non per tutta la durata del sonno; com’è noto, questo alterna fasi senza sogni (sono non REM) e fasi con sogni (sonno REM); se nella fase “non REM” sono attive solo le funzioni subcoscienti che non possono essere mai interessate dall’attenzione cosciente (battito cardiaco, metabolismo, etc .) in quella REM accade qualcosa di molto particolare: l’ “Io” si ridesta.

Chi sveglia l’ ”Io”?
Perché, dopo alcune ore di sonno profondo e di totale assenza di attenzione cosciente, questa torna ad attivarsi? E come avviene tutto ciò?
Il fatto del tutto nuovo, rispetto alla normale attenzione cosciente da svegli, è che l’Io si ridesta, ma in assenza del “dove”, in quanto tutti gli stimoli percettivi sono inibiti a livello del sistema limbico; inoltre, sembra chiaro che in assenza del “dove”, non si attivi nemmeno il “quando”: come potrebbe, infatti, funzionare, il confronto tra “ora” e “prima”, in mancanza di uno dei due termini di paragone?

Ma siccome, come abbiamo visto in apertura, non può esistere un “Io” senza “quando” e senza “dove”, è necessario che si torni a formare comunque una dimensione spazio-temporale nella quale l’ “Io” possa esistere, e quello che verosimilmente accade è che questa dimensione non è quella ricostruita in altissima fedeltà dall’elaborazione delle informazioni fornite dai sensi fisici (come accade da svegli), bensì un’altra che, tramite i medesimi sistemi di elaborazione, viene generata virtualmente, utilizzando le uniche informazioni in quel momento disponibili, cioè quelle depositate nella memoria.

La memoria.
Se, dunque, l’ “Io”, per potersi ridestare in sogno, attinge dal patrimonio mnestico le informazioni necessarie per darsi le coordinate spazio-temporali senza le quali non esisterebbe, è bene provare a mettere a fuoco alcune caratteristiche della memoria, forse la funzione più enigmatica e sfuggente del nostro sistema nervoso.

Quella che in questa sede appare la più interessante è la natura dell’informazione mnestica, che non è altro che una sintesi, dotata di significato simbolico, di una somma di informazioni percette in maniera analitica. In altre parole, tutte le percezioni arrivano nelle diverse aree corticali in forma analitica e non strutturata; anzi, vi arrivano sotto forma di miliardi di input “attivazione-non attivazione” (qualcosa di simile all’infomazione base del sistema binario del linguaggio di computer), che corrono separati e paralleli lungo gli assoni, fino alle cellule bersaglio, dove prendono il via i processi di elaborazione e confronto, fino alla formulazione di significati simbolici.

E’ in questa forma che, quando non sono dimenticate, le informazioni (non solo quelle derivate dalle percezioni, ma anche quelle riferite alle fantasie, e quindi autonomamente generate dalla coscienza) vengono depositate in memoria e sotto questa forma vengono all’occorrenza riutilizzate; la memoria archivia quindi concetti simbolici a diversi livelli di complessità, che possono essere a loro volta recuperati e ricombinati per generare nuove sintesi simboliche.

Un’ipotesi sui sogni.
Dunque l’ “Io” che si riattiva nel sonno REM, nel suo dotarsi di essenziali coordinate spazio-temporali, genera nuovi simbolismi attingendo dal patrimonio mnestico depositato nella memoria; ma lo fa in forma casuale o significante? Cioè, vale la pena di cercare un significato recondito nei sogni, o questi sono solo allucinazioni frutto di un processo metabolico del cervello?

Non è facile rispondere senza lasciarsi influenzare da pregiudizi o convinzioni ataviche: anche se la pura casualità sembra assai poco credibile (è concepibile una manipolazione totalmente insensata di oggetti dotati di significato, da parte di un sistema che li ha generati e li utilizza – da sveglio – per continuare a vivere?), non bisogna dimenticare che le combinazioni casuali hanno giocato un ruolo non indifferente nella storia della vita e della sua evoluzione specializzata.

Il fatto è che una messe sempre maggiore di riscontri oggettivi dà ragione a tutti coloro che attribuiscono ai sogni effettivi significati, risultato di elaborazioni condotte dall’ “Io”, non più vincolato dalle coordinate della coscienza da sveglio; per orientarsi nella comprensione di questi significati è necessario provare a spiegarsi “perché” riparte l’ “Io”.

Immaginiamo una nostra normale giornata, condotta tra lavoro, soste per i pasti, momenti di lettura, relax in poltrona, un film, un po’ di musica … in media oltre sedici ore consecutive nelle quali il “fuoco dell’attenzione” si è posato un po’ dappertutto, senza un attimo di tregua, e nelle quali ai diversi livelli del sistema nervoso centrale sono costantemente pervenuti impulsi percettivi per lo più non strutturati, ma che spesso sono stati combinati in elementi simbolici, a volte molto elementari, altre volte più complessi, ma sui quali – cosa più importante – mai il “fuoco dell’attenzione” ha avuto modo di posarsi, anche se, comunque, sono stati provvisoriamente “piazzati” da qualche parte negli sconfinati circuiti di neuroni del cervello.

In altre parole, l’ininterrotta attività dell’attenzione durante la veglia, che opera in forma selettiva sugli input percettivi, determinerebbe un sovraccarico di percetti solo in parte elaborati in forma simbolica (c’è da chiedersi se ciò possa accadere anche in forma puramente analitica, e quindi totalmente priva di significato simbolico, cosa, peraltro, in apparente contrasto con le ipotesi sopra enunciate sulle modalità di funzionamento della memoria); questi devono essere “scaricati” e quindi svegliano l’ “Io” affinché li utilizzi, completando il processo di analisi, solo parzialmente avviato, ma necesario per consentire lo “scarico”.

“Scaricare” è quindi un concetto molto vicino a quello di “utilizzare”: una informazione utilizzata può essere, quindi, dimenticata e forse è per questo che si dimenticano i sogni.

Se così stanno le cose, quali significati possono depositarsi nel patrimonio di quotidiano accumulo di percetti non completamente strutturati? Oppure, quali nuovi significati può generare un “Io” non condizionato dalla dimensione “reale” dello spazio-tempo?

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